Il mondo ludico è pervaso di casi in cui i personaggi, saltando di loro volontà oppure lanciati dai loro avversari, cadono da altezze importanti e subiscono una certa quantità di danno. Ma come funziona la caduta del mondo reale? Quali aspetti l’udici sono verosimili e quali assolutamente no? Andiamo a scoprirlo insieme.

La sfida di Galileo
Il moto dei corpi in caduta libera è stato uno dei primi argomenti affrontati agli albori della fisica, tra la fine del ‘500 e l’inizio del ‘600, quando il suo formalismo matematico si stava ancora delineando. Galileo fu proprio uno degli iniziatori di questa disciplina moderna e uno dei primi a studiare la dinamica di questo tipo di moto. Il moto in caduta libera è infatti un moto che raggiunge velocità importanti in brevissimo tempo, e gli uomini si sono sin dall’antichità trovati di fronte a oggettivi difficoltà nel produrre delle misure di fronte a questo tipo di moto. Lo stratagemma del Galilei si basa sul lo studio di un moto che non sia direttamente in caduta libera, ma che si avvalga di un piano inclinato: questo tipo di moto, infatti, è estremamente somigliante alla caduta libera ma si svolge con dei tempi più dilatati, in modo da rendere più facile la misura. Pur essendo però il moto più adagio, si tratta comunque di investigare in quanto tempo un corpo copre una certa distanza con strumenti meno raffinati di quelli moderni, come ad esempio le clessidre: si considerino inoltre che si tratta comunque di pochi attimi nelle quali i corpi coprono interi metri!
Un altro motivo infatti per il quale Galileo scelse l’uso di un piano inclinato era che il piano stesso poteva essere utilizzato come supporto per altri dispositivi in grado di semplificare la misura: mi riferisco in particolare a dei campanellini che una pallina, rotolando lungo una guida inclinata, percuoteva nel suo moto. Questo permise a Galileo di tenere gli occhi ben fissi sulle clessidre mentre con gli orecchi seguiva il suono dei campanellini montati a distanze adeguate.
Tale esperimento portò a una serie di evidenze ha fatto banali: nello specifico, se la pallina rotolava per il doppio di un periodo di tempo di riferimento, lo spazio percorso non era il doppio, bensì quattro volte tanto. Il moto in caduta libera è infatti un classico esempio di moto uniformemente accelerato, del quale abbiamo parlato in quest’altro articolo.
A onor del vero bisogna dire che quello della caduta è un moto QUASI uniformemente accelerato: infatti l’accelerazione a cui un oggetto in caduta è soggetto (l’accelerazione di gravità “g”) è considerata costante solo perché, nel range di altitudini esplorate dagli esseri umani, essa varia pochissimo: sul livello del mare è circa 9,81 metri al secondo quadrato, mentre in cima all’everest scende ad appena 9,77, mentre scendendo 10km in profondità arriva a 9.84. A causa della piccola intensità relativa di queste variazioni, possiamo di buon grado considerare questa accelerazione come costante per quanto concerne la superficie della terra e le sue immediate vicinanze: non farlo implicherebbe usare la forza di gravitazione universale di Newton, introducendo nei nostri calcoli integrali ed equazioni differenziali che, onestamente, pochi hanno voglia di affrontare!
Velocità terminale
Accade spesso, in ambito ludico, che i protagonisti (o i loro avversari) cadano come se la velocità di caduta fosse costante: abbiamo tuttavia visto che il moto di caduta libera è un moto accelerato, per cui la velocità non è affatto costante ma aumenta continuamente in maniera uniforme (nello specifico 9,81 m/s, circa 35 km/h, accumulati per ogni secondo di caduta). Ma questa approssimazione è davvero così sbagliata? Accade infatti che, dopo aver percorso una certa distanza, i corpi che cadono nell’atmosfera terrestre raggiungono una velocità limite detta “velocità terminale”. Per capire come mai questo accade dobbiamo riflettere su quali sono le forze che agiscono sul corpo in caduta.
Da una parte il corpo è trascinato verso il basso da una forza dovuta all’attrazione gravitazionale della terra, nota anche come forza peso; dall’altra parte l’aria attorno al corpo tende a frenarlo, esattamente come sposta indietro la nostra mano se la portiamo fuori dal finestrino di una macchina in corsa. Questa forza, la forza di attrito fluidodinamico dell’aria, non è costante nel tempo, ma cresce all’aumentare della velocità secondo la seguente formula:
Dove ρ è la densità dell’aria (circa 1,3 kg per metro cubo), v è la velocità dell’oggetto e i restanti termini rappresentano un coefficiente di attrito e un’area di interazione che dipendono dalle caratteristiche dell’oggetto in caduta.
Dalla formula risulta evidente che, aumentando la velocità dell’oggetto, la forza di attrito aumenta ancora più velocemente: tanto più l’oggetto viene accelerato dalla trazione gravitazionale, tanto più l’attrito dell’aria aumenterà l’intensità.
Quando queste due forze si equivarranno, il corpo proseguirà la sua caduta con velocità costante punto risulta così evidente che, equiparando la forza da attrito e la forza peso, è possibile ricavare la velocità terminale di un corpo.
Per un essere umano che cada “in posizione prona”, cercando di rallentare il più possibile, la velocità terminale è circa 56 m/s (circa 200km/h): questa velocità non viene mai raggiunta “completamente”, ma ci si avvicina progressivamente ad essa. Attenzione però, questa progressione è in realtà estremamente rapida: dopo appena 10 secondi, dopo aver percorso circa 350m, un essere umano in caduta libera avrà già raggiunto il 94% della sua velocità terminale!
Ma dunque, il moto uniformemente accelerato è una cattiva descrizione della caduta libera?
Come visto prima, ci sono alcuni termini della forza di attrito che dipendono dalle caratteristiche dell’oggetto: questi fattori saranno molto grandi in oggetti leggeri e dalle forme adatte all’attrito, come una piuma, mentre saranno molto piccoli in oggetti pesanti e con una forma più inadatta all’attrito, come una freccia o una palla. Per questi ultimi tipi di oggetti, la forza di attrito sarà trascurabile, soprattutto per moti brevi, mentre per i primi sarà un contributo importante.
Se infatti, per i primi secondi di caduta, anche la caduta libera di un essere umano disteso ricorda un moto uniformemente accelerato, dopo già 5 o 6 secondi il contributo dell’attrito comincia a essere predominante.
Potrebbe quindi risultare scientificamente accettabile che i personaggi cadano a velocità costante, ma solo dopo una fase di accelerazione di alcuni secondi.
Salti della fede
Chiaramente, un impatto alla velocità terminale di 200km/h ha ovviamente una probabilità estremamente alta di uccidere: al contatto con il suolo, il corpo subisce infatti una decelerazione improvvisa e fatale. Gli autori di Assassin’s Creed si sono posti questo problema? Beh, un gruppo di ricercatori del dipartimento di Fisica e Astronomia dell’università di Leicester si è preso la briga di stilare qualche conto…
In particolare, gli studiosi hanno preso come 25 g (ovvero 25 volte l’accelerazione di gravità sulla terra) un limite tollerabile di decelerazione senza serie ripercussioni e come 100g il limite sopportabile dal corpo, anche a costo di danni importanti.
I risultati, effettuati tramite un calcolo teorico che approssima un pagliericcio a un cubo di un materiale con determinate proprietà elastiche, mostrano che raggiunta la velocità terminale di 200 km/h servirebbero oltre 20 metri di paglia per sopravvivere inermi e circa 5 metri per portare a casa la pelle: un pagliericcio da un metro e mezzo può essere utilizzato per salti fino a 12 metri e potrebbe impedire la morte per altezze fino a 50 metri.
In ogni caso, non ci prendiamo la responsabilità di confermare questi dati e vi invitiamo a lasciare eventuali prove sperimentali ai professionisti.
Queste altezze ovviamente cambiano in caso di salto della fede in acqua, introdotto nei capitoli più recenti.
Qui si possono raggiungere velocità molto maggiori, in quanto il tuffo si effettua in verticale, ma l’acqua può essere anche molto profonda aumentando nettamente lo spazio concesso alla frenata.
I tuffatori professionisti si gettano da altezze intorno ai 25 metri, fino agli incredibili 45 metri dei “La Quebrada Cliff Divers” di Acapulco, che tuttavia, pur essendo professionisti, riportano talvolta lesioni.
Danni da caduta
E se volessimo approfondire il rapporto tra la caduta e i danni veri e propri?
Andiamo a vedere assieme cosa dice il gioco di ruolo più famoso del mondo!
Un “umano comune” in D&D ha mediamente 4-6 PV in base all’edizione: scendendo a 0 PV, egli perde conoscenza e ha una certa probabilità di salvarsi o essere salvato.
Una regola alternativa della quinta edizione dice che, se i suoi PV raggiungono il massimale negativo (cioè se, a seguito di un danno, il nostro umano comune scenda a -6 PV) la morte è istantanea: ci aspettiamo dunque che una caduta che infligga circa 8-12 danni sia immediatamente letale (nell’edizione 3.5 la morte arria a -10 PV indipendentemente dalla salute massima, per un totale di 16 danni subiti).
Nelle varie edizioni di Dungeons & Dragons, una regola ricorrente è che una creatura che cade per almeno 10 piedi (poco più di 3 metri) subisca 1d6 danni contundenti (nella quarta edizione, i danni erano 1d10).
Visto che i danni medi di 1d6 sono 3.5, stiamo parlando di circa 1.2 danni per piede.
Ma questi danni sono tanti o sono pochi?
Secondo Trauma Anesthesia (C. E. Smith) il 50% di probabilità di morire si ha attorno ai 48 piedi di caduta (poco meno di 15 m), mentre da questo questo studio, che ha preso un centinaio di cadute (poche purtroppo), si evincerebbe che questo accada attorno ai 6-9 metri.
Ancora una volta il campione scelto (bisognerebbe approfondire come siano stati ottenuti questi dati) può essere importante, così come è importante ricordare che D&D è un gioco e deve, giustamente, avere regole sufficientemente snelle da non rendere impossibile giocare.
Ciò detto, per quanto la mortalità a bassa altezza nel mondo reale sia molto superiore a quanto D&D mostri, per i valori successivi il gioco mostra risultati più verosimili: la probabilità infatti di ottenere 12 o più danni con 3d6 (i danni per circa 9 metri) è del 37,5% mentre sale al 76% con 4d6 (12 metri o più), percentuali molto simili a quelle della tabella.
Per quanto invece concerne il danno massimo, esso è limitato a 20d6, equivalente a una caduta di 200 piedi (circa 60 metri): questa distanza però, che viene percorsa in circa tre secondi e mezzo, non permette di raggiungere velocità molto oltre i 30 m/s, circa la metà della velocità terminale.
Potremmo per cui aumentare questo massimale a, ad esempio, a 800 piedi (240 metri), equivalente a 80d6 di danno, per raggiungere una velocità “tonda” di 48 m/s (già molto vicino ai 56m/s).

Ma che succede se non è il PG a cadere, ma un altro oggetto che si schianta su di lui (o su un nemico)?
Mentre la quinta edizione è parca di regole da questo punto di vista, l’edizione 3.5 propone delle regole specifiche.
Ogni 200 libbre (circa 100 kg) di massa un oggetto infligge 1d6 danni se cade per almeno di 10 piedi (3m): oggetti più leggeri devono cadere per distanze maggiori al fine di infliggere danni, ma la presenza di una maggiore distanza di caduta aggiunge i solidi d6 danni ogni 10 piedi dopo i primi.
Se la relazione tra queste grandezze fosse stata moltiplicativa (dunque moltiplicare la massa per la distanza) sarebbe stata facilmente correlabile all’energia potenziale del corpo, ma purtroppo la relazione è additiva: non ci sono grandezze che dipendono dalla massa solo per i primi tre metri.
Certo, potrebbe essere stata una scelta di semplificazione: in questo caso sarebbe possibile immaginare davvero che questi danni siano una misura dell’energia dell’impatto.
D’altra parte, l’energia di impatto di un oggetto di 100kg lasciato cadere da una certa altezza è la stessa di un PG con uguale massa che cade dalla stessa altitudine, e 100 kg è una buona stima della massa di un avventuriero carico di armatura ed equipaggiamento: in entrambi i casi si tratterebbe di un’energia di poco meno di 10 KJ (o 10.000 Joule).
Sarà questo una buona stima dell’energia correlata a 1d6 danni?
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